domenica 16 ottobre 2011

Il ciabattino

L’altro giorno gironzolavo per i negozi dell’Auchan per farmi venire delle idee per i regali di Natale (sai come sono fatta, io mi porto sempre un po’ avanti) e incontro, in un nuovo negozio di scarpe, nel Centro commerciale, un mio vecchio amico. Mi racconta tutto di quella nuova catena di negozi e mi conferma che a fronte dei prezzi relativamente bassi, la qualità è decisamente buona. Mi confida che queste cose le conosce perché da giovane aveva fatto il garzone presso un ciabattino. A quel punto non sono riuscita più a seguire il suo discorso: la qualità delle scarpe, come la si riconosce, cosa controllare quando le si comperano... Improvvisamente, come una marea che sale, un ricordo struggente prendeva corpo in me. Penetravano oltre la cortina dei ricordi solo poche parole qua e là. Sì, perché quella parola buttata là in un discorso più ampio - ciabattino - ha fatto affiorare alla mia mente tanti ricordi che si affollavano come a riempire un vaso, tanto da farlo traboccare. E che emozione per quell’improvviso ricordo richiamato alla superficie alla mia mente! Devi sapere, te ne ho già parlato, che subito dopo la guerra si avevano pochi soldi e quindi anche poche scarpe. Nella nostra famiglia solo un paio per l’inverno e un paio per l’estate e i sandali (quando eravamo fortunati!). Solo la mamma faceva eccezione e te ne parlerò poi. Le scarpe erano tutte di pelle, con la suola di cuoio. Adesso è quasi un lusso avere le scarpe in vera pelle, ma allora non c’erano le pelli sintetiche, le “eco-pelli”. Quelle invernali, sempre in pelle, avevano la suola di para (una gomma morbida e spugnosa). Le scarpe che adesso voi tutti ragazzi usate in ogni occasione (le sneakers) non esistevano. C'erano però le “scarpe da tennis” che si usavano appunto per giocare a tennis. Scarpe povere di tela blu con la suola di gomma bianca. E chi le portava usualmente veniva immediatamente indicato come un poveretto. Solo le Superga erano care, di lusso, c’erano già allora e ci sono ancora. Dunque le scarpe erano preziose. E quando a noi ragazzi le scarpe estive diventavano corte, nulla di più semplice che tagliarle in punta e far uscire le dita! A casa mia le scarpe di tutta la famiglia (papà, mamma, io, mio fratello e mia nonna), stavano tutte ben allineate in bagno. E uno dei miei compiti domenicali (che per altro amavo molto) era quello di pulirle tutte con il lucido. Ti immagini se dovessi farlo adesso? Mia mamma invece, probabilmente per un difetto ai piedi, si faceva fare le scarpe su misura da un calzolaio in centro di Milano. Lei doveva essere sempre ben vestita per il suo lavoro ed era una donna molto bella ed elegante. Aveva anche molto buon gusto e quando si faceva fare le scarpe, sempre tutte con alti tacchi, si permetteva quelle frivolezze civettuole dell’epoca: scarpe nere con inserti bianchi da coordinare con la borsetta bianca e nera, quelle di vernice da abbinare alla borsetta di vernice, quelle aperte in punta, quelle con le cinghiette alla caviglia (le mie preferite, che rubavo sempre dall’armadio e dalla carta velina dove erano conservate, per indossarle di nascosto quando giocavo “alle signore”), e d’estate aveva i sandali con la zeppa di sughero, proprio come quelli di adesso. Queste non erano in bagno con le nostre, se ne prendeva cura solo lei. Le nostre scarpe, invece, non erano di gran qualità, e presto il cuoio delle nostre suole si consumava: sui tacchi, sulla punta e, soprattutto, al centro della suola, fino a formare dei buchi da dove ci passava anche un dito. A volte mettevamo all’interno della scarpa una cartolina ripiegata e così si andava avanti per qualche giorno, sperando che non piovesse! E allora ecco l’importanza del ciabattino. In forma preventiva gli si portava sempre le scarpe nuove per fargli mettere i “ferretti” (sì, proprio come i ferri per i cavalli!). Erano dei piccoli archetti di metallo con dei buchini per i chiodi che si mettevano al tacco e alla punta delle scarpe, per evitare che si consumassero troppo in fretta. Questo però era fastidiosissimo, (dio, come li odiavo!) perché facevano scivolare sui pavimenti lucidi e sui marciapiedi e, ad ogni passo, era come se ballavi il tip-tap. Non potevi pensare di passare inosservato se camminavi per strada o a scuola con i ferretti! Poi, quando anche i ferretti si consumavano e, dopo averli cambiati un paio di volte ancora, le suole delle scarpe irrimediabilmente si consumavano e allora c’era solo da cambiare tutta la suola o il tacco. Operazione assai costosa, ma sempre meno costosa che comperare un paio di scarpe nuove. E poi le scarpe si rompevano anche sulla tomaia (la parte superiore della scarpa) e si ricorreva a pezze, cuciture, cambio di cinghiette, cuciture ecc.
Questo era il lavoro del ciabattino (ancora ne sopravvive qualcuno, ma ora sono tutti tecnologicamente avanzati). E io ne conoscevo uno speciale. Era un amico di mio padre, comunista anche lui, e aveva il negozio nella via dietro casa nostra. Era un ometto tutto storpio, probabilmente un nano, non più alto di me che ero una bambina di 7/8 anni. Un testone grosso, con tanti capelli grigi arruffati, una carnagione scura e butterata, dei grossi occhiali cerchiati di nero su un naso enorme e due grandi labbroni: insomma così brutto che se te lo sognavi di notte, era un incubo! Ma era un uomo splendido, di una dolcezza e di una tenerezza incredibile! Io andavo spesso nel suo negozio e ci passavo interi pomeriggi, su uno sgabellino a tre piedi, piccolo anche per me. Il suo negozio era piccolissimo, senza tende ai vetri della vetrina (d’altra parte a cosa sarebbero servite? c'era la polvere a fare da cortina!), e dentro, i muri anneriti dal tempo. Nella minuscola stanza una sola luce scendeva dal centro del soffitto bassa bassa, proprio fin sopra il suo deschetto da lavoro. La lampadina, per risparmiare, faceva poca luce, giusto quella che seriva a lui per lavorare ed entrare in quel negozio nei pomeriggi d’inverno, sembrava di entrare in un antro buio. Il basso tavolino era al centro della stanza, ma si stentava a riconoscerne le forme per gli strati di colla, di sporco, e di quell’accozzaglia di cose che c’erano sopra. Lui sedeva su una seggiola di paglia che, benché gli fossero state tagliate le gambe per adattarla alla sua statura, era sempre troppo grande e troppo alta per lui: i piedi gli dondolavano nel vuoto, tanto che si appoggiava ad una traversa del suo deschetto. Sul tavolino una lampada ad acetilene con la fiamma sempre accesa, un barattolo di metallo con una colla gialla e densa che ce n’era più fuori che dentro, un pennello che non aveva più nulla della sua forma originale, tanta era la colla che si era attaccata e seccata sopra. C’era il ferro del mestiere, una specie di incudine a tre capi, dove si infilavano le scarpe per mettere i chiodi nella suola o sui tacchi, poi coltelli, coltellini con lame corte, inclinate, taglienti, punteruoli di diverse misure, martelli e martellini di tutte le fogge, pezzi di pelle e di cuoio e chiodi, tanti chiodi, sparpagliati in un angolo del deschetto, di diverse lunghezze e fogge che lui si metteva in bocca a manciate per poi, quasi per magia, farne uscire uno per volta, delle dimensioni e del tipo adatto al lavoro in corso. Io rimanevo incantata ad osservare il suo lavoro, rimanevo per ore in quella stanzetta fredda e buia, inebriata dal profumo della colla e del cuoio (vedi come ancora gli odori ed i profumi sono così strettamente legati ai miei ricordi!). I suoi movimenti, sempre precisi ed armonici erano come quelli di un direttore d’orchestra. Osservavo le sue mani con dita corte, tozze, nodose: nere le dita e nere le unghie. Colla, pece e cosa altro ancora? Si muovevano veloci, mai un gesto fuori posto, mai un gesto sprecato. Lavorava su scarpe sfatte, sformate, con suole bucate, con la punta aperta come la bocca di un pesce in cerca d’acqua, pescate dal mucchio in terra, chissà con quale criterio. E le sue mani giravano e si muovevano intorno a quelle scarpe: colla, cuoio, pece, ago, filo, chiodi e, alla fine il lucido, dato con veloci spazzolate. E, per ultimo, un’accurata passata con la manica del suo grembiulone grigio pieno di macchie. Poi allontanava da sé la scarpa e la rimirava, la rigirava, ne controllava la lucentezza: aveva fatto un miracolo: da una scarpaccia mal forme ne aveva tratto una scarpa brillante e lucente, come nuova. E per ogni scarpa c’era una storia: c’era quella dell’operaio che lavorava in fabbrica, quella elegante del ballerino, quella della nonna che va al mercato trascinando stancamente i suoi piedi…, quella della giovane sposa che aveva portato le sue belle scarpe bianche che, terminata la loro funzione di un giorno, tinte di nero, diventavano magari scarpette eleganti per andare a ballare con il bel marito… Ricordo con quanta tenerezza e delicatezza lavorava sulle scarpe dei bambini, scuotendo leggermente la testa e con un lieve sorriso sulle labbra. Mi raccontava tutto sulle scarpe, segreti e storie dei loro padroni, vere o inventate, chissà! O altre storie affascinanti che io ascoltavo, non senza preoccupazione della manciata di chiodi che si era messo in bocca e che gli spuntavano, come per magia, dalle labbra, e tutti dal verso giusto! Lui non si alzava mai dal suo basso scranno: aveva tutto quello che gli serviva a portata di mano, per terra intorno a lui. Non si alzava nemmeno quando arrivava un cliente che gli consegnava le scarpe da aggiustare: le guardava, le buttava sulla pigna vicino al muro alla sua destra e diceva in quale giorno sarebbero state pronte. Una pigna informe, polversa, di un colore indefinito: dal nero, al marrone. Solo qualche sprazzo di colore più chiaro, di beige o di bianco spuntava qua e là. Quelle erano sicuramente scarpe da donna o di bambina. Si alzava solo quando doveva riconsegnare le scarpe aggiustate e con la sua andatura goffa si avvicinava alla montagna di scarpe alla sua sinistra, pulite e lucide, ammucchiate sì, ma con ordine, accoppiate e divise tra quelle da uomo e quelle da donna. E allora cercava e cercava e le incartava in un foglio de L’Unità. Prendeva i soldi della riparazione e li metteva in una delle tasche del grembiulone e dava i resto in monete sempre prendendole da quella tasca tintinnante. Ricordo che a volte le banconote gli rimanevano attaccate alle dita sporche di colla!
Ancora oggi mi sto domandando se la mia smisurata passione per le scarpe mi viene da quel meraviglioso ciabattino e dalle sue storie o dal DNA di mia madre!


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