martedì 8 novembre 2011

Nonna, quando eri piccola, con quale Barbie preferivi giocare?

Eccoci, all'epoca della fatidica domanda!
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“Nonna, quando eri piccola, con quale Barbie preferivi giocare?”

Ebbene, Lucrezia, mi hai spiazzato, ho avuto difficoltà a risponderti, così, in macchina, nei pochi minuti che stiamo insieme quando ti accompagno a pattinare al Palaghiaccio di Sesto San Giovanni. C'era anche Sibillina con noi che faceva danza classica sempre al Palazzetto. Hai quasi 9 anni e mezzo, Sibilla ne ha 7 e io più di 65, abbiamo spesso parlato della mia infanzia, paragonandola alla vostra, ti ho raccontato tante volte storie di antichi mestieri ora spariti, episodi della mia infanzia e come si viveva allora. Ma solo ora, con quella domanda, mi sono accorta quanto il poco più di mezzo secolo che ci separa, sia per te tanto incomprensibile e lontano dal tuo mondo di oggi. Mai nella storia dell’umanità in così poco tempo il mondo è tanto cambiato. Così cambiato che per te è impossibile pensare ad un mondo senza televisione, senza telefonini, senza Internet, senza computer, senza lavatrici, senza frigoriferi, senza plastica, ma, soprattutto, un mondo più semplice, fatto di piccole cose, piccole gioie conquistate a fatica, giorno per giorno.
Io (in IV elementare) e mio fratello
Giorgio in gita scolastica con la classe
di mio padre.
Lo sai, te l’ho raccontato, sono nata in tempo di guerra, sotto i bombardamenti americani, e poi siamo stati subito sfollati in un piccolo comune alla periferia di Milano. Mi rendo conto che parlare di guerra con te è molto difficile: farti capire le tragedie, le privazioni, i lutti, le azioni disumane, la follia di quella guerra assurda (come sono assurde tutte le guerre), ora non è cosa facile. Da una parte c’è il tentativo anche da parte degli insegnanti di avvicinarvi con la storia o con discussioni in classe agli orrori della guerra, parlandovi della shoah, di Anna Frank, ma, dall’altra, c’è l’esigenza di proteggere i giovani come te da racconti troppo crudi e cruenti. Per me è stato diverso: la guerra ha impregnato ogni momento della mia infanzia. Giocavamo sulle macerie delle case abbattute dai bombardamenti degli aerei, mio padre mi raccontava ogni giorno storie della sua vita da partigiano, sicuramente in qualche modo un po' romanzata, e al cinematografo (così si chiamava) c’erano quasi solo film sulla guerra. Nel mio quartiere c'erano ben 4 sale cinematografiche e, non essendoci ancora la televisione, erano sempre affollate, soprattutto il sabato e la domenica. Noi ci andavamo spesso, anche con mia madre. Mio padre veniva solo quando c'erano film "impegnati", considerava il cinematografo un passatempo frivolo. Spesso ci andavamo mio fratello ed io la domenica pomeriggio: entravamo alle 14.00 e uscivamo all'ora di cena. Guardavamo i film due o tre volte! Era sempre una discussione tra me e mio fratello: lui voleva vedere solo film di guerra, mentre io amavo molto i film con Jerry Lewis e Dean Martin. Alla fine facevamo una volta per uno.
Ma della guerra e come l’ho vissuta negli anni immediatamente successivi te ne parlerò un’altra volta. Ora cercherò, ma so già che sarà un'impresa ardua, di farti entrare nella mia infanzia, farti partecipe delle mie gioie, delle mie scoperte, dei miei giochi, dei miei affetti. So già che anche se è passato solo poco più di mezzo secolo, i cambiamenti che sono avvenuti in questi anni sono talmente radicali ed epocali che anche noi che abbiamo vissuto quegli anni facciamo fatica a seguirne ora l'evoluzione. Mi piacerebbe che voi poteste pensare qualche volta a me anche come quella bambina che fui e che ancora è in me...

lunedì 7 novembre 2011

Anch'io ho avuto una nonna

Nonna Ebe con mio fratello e me
Si potrebbero scrivere fiumi di parole (e in tanti lo hanno già fatto) sulla meravigliosa esperienza di essere nonni.
Però c'è un ricordo che mi turba: la mia di nonna. La ricordo come l'ho sempre vista nella mia infanzia: magra, pallida, con lunghi capelli candidi che acconciava con una lunga treccia raccolta sulla nuca. I suoi vestiti erano tutti neri, ma con piccoli particolari che ingentilivano la sua struttura angolosa. il tessuto nero poteva avere dei piccolissimi fiorellini bianchi o grigi, oppure il colletto era di candido pizzo, o la foggia era ingentilita da pieghe o plissé. Non me la ricordo diversa, né più giovane, né più vecchia. Eppure ha vissuto in casa nostra praticamente dalla mia nascita fino alla sua morte, quando già avevo 13 anni. Solo due cose ricordo di lei, cose che mi ha raccontato: proveniva da una famiglia molto ricca, viveva in una grande villa e andava a scuola, lei e sua sorella, con il calesse e il cocchiere. L'altra cosa era che il suo futuro marito (mio nonno che non ho mai conosciuto) partì per fare il militare e lei era ancora così piccola che lui la prese in braccio e baciandola le disse sorridendo: "Quando torno ti sposo". E poi successe davvero!
Sorrideva di rado (forse anche perché aveva un sol dente!), non mi ricordo complicità o gesti affettuosi. D'altra parte non ero la sua nipote preferita: il preferito era mio fratello. Nel suo sguardo c'era sempre disapprovazione per me, mi considerava un maschiaccio, ben lontana dal suo modello di nipote. Modello che cercava di impormi quando mi portava a trovare la sua sorella minore, la zia Vittoria. E in quelle occasioni mi faceva indossare un abitino bianco ricamato, scarpe bianche di camoscio, e calzini corti bianchi che mi scivolavano sotto il piede ogni tre passi. Non dovevo correre, in filovia dovevo parlare piano e dovevo darle la mano. Fino a Viale Abruzzi ci andavamo con la filovia la 90 (credo che ci sia ancora) e, per arrivare alla fermata, io però mi prendevo una piccola rivincita. Dovevamo passare davanti al sagrato della chiesa di Santa Maria Alla Fontana, un grande piazzale di acciotolato, delimitato da paracarri di granito ogni due o tre metri. Allora mi rimboccavo la gonnellina dentro le mutandine e saltavo tutti i paracarri alla cavallina, sotto lo sguardo disapprovevole di mia nonna. Ero brava, facevamo sempre a gara con gli altri bambini a chi saltava più paracarri e in meno tempo. Io ero sempre tra i primi, ben avanti a tanti altri maschietti! Poi dovevo subirmi i rimbrotti della nonna, ma vuoi mettere la soddisfazione. Però devo ammettere che il vestitino che mi metteva era bellissimo, me lo aveva fatto la mia mamma e lo aveva ricamato proprio la zia Vittoria: di candida seta bianca (di un paracadute americano che mio padre aveva portato al ritorno dall'Oltrepò Pavese dove aveva fatto il partigiano) tutto ricamato con delicati fiorellini a punto ombra. Quel vestito l'ho portato per molti anni, perché, come si usava allora, c'era un buon margine di stoffa nel corpetto che di anno in anno veniva allungato e nella gonna venivano aggiunte balze ricamate. Ho un ricordo così bello di quel vestitino che è come se anche ora ne sentissi il profumo, la morbidezza, la scivolosità della seta e il ricamo a punt'ombra che formava, per ogni petalo di fiore, come delle bollicine di seta che ancora mi sembra di sentire sotto le dita, quando lo toccavo incuriosita da quello strano effetto di colore...
La nonna la ricordo sempre seduta sulla poltrona vicino alla finestra della sala da pranzo con a fianco il cesto da cucito e con vicino pile di calze da rammendare, orli da ricucire o da allungare, cerniere da cambiare, fodere dei pantaloni o delle giacche da cambiare. Allora si faceva tutto in casa e dalla sarta ci sono andava quando ero più grande per farmi fare dei cappotti con il cappellino uguale. Mia mamma ci teneva che fossi sempre elegante!
Mia nonna mi ha raccontato poco della sua infanzia. Ricordo solo che raccontava che abitava in una grande villa perchè i loro genitori erano molto ricchi e che andava a scuola con la sorella (la zia Vittoria appunto) con il calesse ed il cocchiere. Poi mi ha raccontato che da ragazza è emigrata in Brasile e che aveva come suo animale domestico una scimmietta (come la invidiavo!). La scimmietta, presumo una bertuccia, stava sempre con lei e si accoccolava sulla sua spalla e, quando cuciva con la macchina da cucire, cercava di prendere l'ago che andava su e giù, ed era per lei un gran da fare per evitare che un suo ditino si pungesse! Quando capitava che noi sbriciolassimo il pane sotto la tavola mentre si mangiava diceva: "Ci vorrebbero le mie galline che entravano in cucina a mangiarsi le briciole, così non sarebbe necesario scopare!"

Ma avevamo una complicità che ci univa: riguardava la suddivisione delle interiora del pollo. Vi dirò un'altra cosa che a voi parrà strana. Quando si comperava il pollo (solo in alcuni mesi all'anno - aveva la sua stagionalità anche lui) o te lo vendevano vestito, vale a dire con le penne e le piume o spennato, ma intero. E occorreva eviscerarlo, tagliargli le zampe, la punta delle ali, il collo e la testa. Ma non si buttava quasi nulla se non la testa, le budella e il contenuto dello stomaco. Ho inparato presto ad eviscerare il pollo, arte che ora quasi nessuno conosce. Il resto, compreso le zampe (che prima sfiammavi e spellavi) lo facevi bollire e si mangiava il fegato, lo stomaco, il cuore, il collo con il suo squisito midollo, e le dolcissime gelatinose zampette. La nonna divideva le prelibate interiora con me, ma so che lasciava quasi tutto a me, agli altri non piacevano, o forse lasciavano a noi quel piatto che alla fine ci univa in un complice evento culinario.

domenica 6 novembre 2011

Le bambole

Una "ricca" bambola con capelli veri
Le nostre bambole erano soprattutto bambolotti di pezza con solo il viso, le mani, gli avambracci e i piedi, con le gambe dal ginocchio in giù, di ceramica. Io poi ne avevo alcune che consideravo belle e che le mie amiche mi invidiavano: avevo quelle grandissime bambole con abiti da damina riccamente decorati di pizzi e merletti, con capelli inanellati e cappellini a falde larghe, che vincevo alle lotterie di campagna o ai festival dell’Unità (quando non vincevo tacchini vivi, ma questa è un’altra storia). In effetti mio padre ci portava alle fiere, che spesso si sistemavano anche sottocasa nostra, a Milano, in Piazza Segrino e nelle vie limitrofe e, molto spesso, ai vari festival dell’Unità. Sempre mi comperava i biglietti della ruota e io ero molto fortunata, così la mia casa, adagio adagio si affollava di queste bambole.
Quando rimanevo sola a giocare a casa (forse per qualche punizione – solo quello mi poteva trattenere) mi piaceva giocare alla scuola: io facevo la maestra, mettevo tutte le mie bambole sedute per terra, le più piccole davanti e le più grandi dietro, e utilizzavo un tavolinetto della sala da pranzo come cattedra e una bellissima lavagnetta vera con i gessi per insegnare! Sempre lo stesso tavolinetto diventava in altre occasioni il bancone del mio negozio e la cassa era la scacchiera della dama con il cassettino dove si mettevano i soldi (fatti con pezzetti di carta disegnati e, per moneta, le pedine della dama) e sopra alla scacchiera mettevo un piccolo pianoforte verticale in legno che serviva (pigiando su un tasto del pianoforte) per suonare il campanello dell’apertura del cassetto! Mi sembrava davvero come una vera cassa di un negozio.
Le vecchie casse dei negozi
Come mi piaceva quel gioco. A volte lo facevo tutto da sola, alternandomi  a fare la cassiera e la cliente. Solo raramente potevo giocare con qualche mia amica che, eccezionalmente, mia nonna faceva entrare in casa. Le merci del negozio erano scatolette, panini, sacchetti di pasta o fagioli, rubati in cucina.
Invidiavo molto una mia amica, che abitava sul nostro pianerottolo, che aveva un bambolotto con tre espressioni del viso, due delle quali rimanevano sempre nascoste sotto una cuffietta ricamata. Bastava girare una rotellina sopra la testa per avere un bambolotto con l'espressione ridente, oppure piangente o con gli occhi chiusi in un tranquillo sonno. Alcune delle mie bambole (quelle più grandi che già erano di plastica - molto rigida) le vestivo con i miei vestitini o coprifasce da lattante che mia nonna aveva conservato. Mia nonna mi faceva anche i golfini per le bambole e mia mamma mi faceva i vestitini. Erano bellissimi: il più delle volte fatti con i ritagli dei miei vestiti e confezionati con la stessa foggia. A sei o sette anni ho ricevuto, come regalo di natale, una meravigliosa macchina da cucire Necchi in miniatura. Era come quelle vere, con la base di legno e la macchina in metallo. Cuciva girando la manovella, come la macchina vera della mamma. E da allora, prima con l'aiuto della mamma e poi da sola, ho confezionato moltissimi vestiti per le mie bambole. Era uno dei miei passatempi preferiti quando ero a casa da sola. E così ho imparato a cucire a macchina e ancora oggi me la cavo egregiamente.
Proprio sotto casa mia c'è stato per un lungo periodo di tempo un negozio-laboratorio dove aggiustavano le bambole e dove le pettinavano (quelle con i capelli veri). In primavera ed in estate lasciavano aperta la porta del negozio per far entrare l'aria ed io passavo ore a rimirare tutte quelle bambole rotte, senza gambe, senza testa, spettinate, che rinascevano tra le esperte mani delle operaie. C'erano ceste di gambe, di braccia, di teste di tutte le misure, C'era la sarta che aggiustava i vestiti e c'erano anche mucchi di vestitini su degli scaffali e teste, che a dir la verità mi facevano un po' impressione, così, staccate dai corpi. Quello che più mi piaceva e che cercavo di imitare poi con le mie bambole era pettinarle. Ne avevo un paio con i capelli veri: un vero lusso! Facevo loro riccioli, boccoli, treccine e tutto quello che non potevo fare con i miei capelli, sempre e comunque corti!

mercoledì 2 novembre 2011

Quando giocavamo con i "tollini"


Bambini con i pattini a rotelle
Bambini che giocano a biglie
Certo è che dalla guerra ne siamo usciti come Stato perdente e, come tale, con grandi difficoltà economiche. Difficile era sbarcare il lunario con gli stipendi di mamma e papà, figurati spendere soldi per i giocattoli! Ma anche con pochi giocattoli, ho passato un’infanzia indimenticabile, viva, attiva e molto formativa. La scuola terminava alle 12,30 (solo 4 ore al giorno anche il sabato), si mangiava a casa e il pomeriggio era nostro! Alcuni bambini, molto pochi, rimanevano a scuola a pranzo e nel pomeriggio, ma era un servizio di carattere assistenziale e solo per le famiglie più bisognose e per quei bambini che non avevano nessuno che li assistesse. Noi avevamo nonna Ebe, quella di cui ho già parlato prima, che abitava con noi e che si prendeva cura di noi. Mia mamma lavorava alla Pirelli in Piazzale Loreto e tornava a casa alle 19,30 e mio padre, insegnante nella mia stessa scuola, aveva scelto di fare la scuola anche al pomeriggio. I suoi alunni e i relativi genitori erano così contenti di lui che tutti i suoi alunni rimanevano al pomeriggio. Vi racconterò un'altra volta le cose belle che il vostro bisnonno faceva a scuola con i suoi alunni, ma che prima sperimentava spesso con noi a casa. A pranzo mangiavamo con mio fratello, nonna Ebe e mio padre (la mamma rimaneva in mensa). Dopo aver fatto i compiti (mai più di una mezz’oretta) eravamo liberi. Liberi di andare a casa dei compagni, ovunque abitassero, liberi di giocare sul marciapiede (di gran lunga l’attività maggiore) oppure di avventurarci in quartieri della città sconosciuti alla ricerca di avventure. E così facevano tutti i bambini della nostra età. Ci trovavamo sul marciapiede, maschi e femmine e i giochi erano sempre nuovi e diversi. Si giocava a bandiera, si facevano le gare con i pattini a rotelle a chi faceva più velocemente il giro dell’isolato che comprendeva anche un pezzo di marciapiede non asfaltato, si giocava a "tollini o a biglie con piste immense disegnate sull’asfalto dei marciapiedi con i gessetti rubati a scuola, le bambine si dedicavano anche ai diversi girotondi, al mondo, al “Madama do rè” e altri giochi ormai dimenticati. Io ero spesso con mio fratello, di un anno e mezzo più grande di me. Ero l’unica femmina accettata dai maschietti nei giochi prettamente maschili. Ero molto competitiva e li battevo spesso a “tollini” e alle gare con le biglie o con i pattini.
Qui devo spiegarti cosa sono i tollini: sono i tappi a corona che ancora oggi si usano per tappare le bottiglie di bibita; ovviamente dovevano essere poco deformati e, a volte, si usava appesantirli con del materiale vario, creta, piombo fuso o altro; mai però troppo pesanti, perché sicuramente più precisi nel tiro, ma più lenti. Qualche bimbo lo personalizzava con l'immagine di qualche ciclista famoso, per simulare il giro d'Italia. Si tira - puoi provare - inginocchiati per terra, unendo l’indice che trattiene ad anello il pollice che, scattando, dà un colpo ben assestato al tollino. Oppure giocavamo a biglie, che una volta erano di terracotta, di un colore uniforme, marroncino o verdastro e che, se cadevano a terra, spesso si rompevano a metà. Quelle di vetro sono arrvate molto dopo, quando ero già troppo grande per giocare con le biglie. Intanto io giovcavo bene, guadagnandomi sul campo il fatto di essere accettata, unica femmina, nel gruppo dei maschi, e non trattata da “bagianna”.
Bambini che giocano con i "tollini"
Spesso veniva da noi nel pomeriggio mio nonno e lo ricordo in piedi, alto, magro, allampanato, con la sua pipa in bocca e sempre vestito con il suo abito di lana grigio scuro con il panciotto, sia d'estate che d'inverno. E, immancabilmente, il cappello. Si metteva in un angolo del marciapiede e ci osservava, silenzioso. Ogni tanto ci chiamava e dai taschini del panciorro tirava fuori qualche monetina: 2 lire, 5 lire (qualche volta potevano essere anche 10 o 20 lire) che io e mio fratello arraffavamo volentieri e che subito andavamo a spendere dal lattaio per qualche "scarpetta" (una piccola caramella di liquerizia dalle diverse forme venduta sfusa) o per un bastoncino di liquerizia. 

Alcune delle nostre scorribande erano però pericolose. Andavamo a giocare sulle macerie delle case crollate dai bombardamenti della guerra. Nel mio quartiere ce n'erano ancora alcune e ce n'era soprattutto una vicino alla parrocchia di Santa Maria alla Fontana, dove, attraverso un cunicolo tra le macerie si entrava nello scantinato. Lì avevamo trovato un tesoro: ritagli di caroncini lucidi, argentati e dorati che noi utilizzavamo per i nostri travestimenti. A volte arrivavamo a giocare anche al Villaggio dei giornalisti dove c'era una villetta semidiroccata dove si riusciva ad entrare ed esploravamo tutti i locali; ma gli amici di mio fratello si divertivano a spaventarmi facendo i fantasmi e io scappavo fuori. Altre volte siamo andati a giocare sulla massicciata della ferrovia che passa sul Viale Zara e mettevamo diverse piccole cose sulle rotaie per vedere come venivano schiacciate con il passare del treno. Qualche volta da queste scorribande tornavamo tardi e ricordo ancora qualche punizione di mio padre...

martedì 1 novembre 2011

Le baggiane


Le "baggiane" che giocano al "mondo"
Venivano chiamate "baggiane" dai maschietti (un termine un po' dispregiativo, sinonimo di sciocco, vanesio, incapace), in genere tutte le bambine, ma in particolar modo quelle più leziose. Io no, forse perché la competizione quotidiana casalinga con il fratello maggiore (decisamente il preferito in famiglia, ma soprattutto da mia nonna Ebe) e l’imitazione del suo comportamento mi avevano forgiato e, diciamolo pure, ero un po’ un maschiaccio! Ero così accettata che mi avevano affidato (unica femmina) il ruolo di portiere nelle partite di calcio che si svolgevano nella strada dietro casa, dove non passava nessuno, ma proprio nessuno (salvo verso sera, carri trainati dai cavalli della ditta di traslochi Gondrand - ne parlerò più avanti), contro la banda dell’altro isolato. Durante le partite c’era sempre qualcuno che faceva da vedetta ad un capo e all’altro della strada per dare l’allarme in caso di arrivo del “ghisa” (vigile, in dialetto milanese) in bicicletta. E di ghisa ne abbiamo visti tanti, ma uno solo  è stato più veloce di noi, ci ha sorpreso e sequestrato il pallone. Pare fosse vietato giocare col pallone in mezzo alla strada.
Il "Ghisa"
Mio fratello mi ha ricordato alcuni giorni fa quell’episodio che mi ero dimenticata: il vigile, alto, nella sua divisa nera e con il caratteristico casco nero, con una mano teneva la bicicletta e sotto l’altro braccio il pallone che ci aveva sequestrato. Si allontanava e arrivava fino al bar che c’era in Piazza Segrino, proprio di fronte alla nostra casa, e noi lo seguivamo da lontano, cercando di non farci vedere. Il vigile appoggia la bicicletta contro il muro ed entra nel bar. Appoggia il pallone proprio dietro la porta e si avvia verso il bancone per la sua consumazione. In un battibaleno una squadra di “guastatori” si avvicina, chinata dietro la vetrina, prende il pallone e via di corsa tutti insieme ridendo e compiacendoci della nostra bravata! Ma, mi ha raccontato mio fratello, che dietro il bancone del bar c’era un grande specchio ed il vigile aveva seguito tutta la manovra, anzi, aveva appositamente lasciato il pallone vicino all’ingresso!

Era un grande onore per me giocare a calcio e alle biglie o ai tollini con i maschi. Così acquistavo considerazione anche dalle femmine ed ero considerata una leader, una che ci sapeva fare e che prendeva le decisioni sui giochi da fare. Non disdegnavo però di giocare con le bambole: c’arano alcune bambine che ne avevano di bellissime e avevano i pentolini, i piatti, le posate e tutto quello che serviva per giocare alla mamma e al papà. Inutile dirlo: io ero sempre il papà! Ma dove giocavamo noi bambine? Quasi mai  in casa: i nostri genitori mal avrebbero accettato che si buttassero all’aria le nostre case. Nessuno di noi aveva una cameretta tutta sua e non si poteva giocare nel soggiorno che era riservato alla famiglia o come stanza di rappresentanza. E allora portavamo fuori casa ciascuna di noi le proprie carabattole e giocavamo sui gradini delle scale. Sì, tra un pianerottolo e l’altro, o tra l’ultimo piano e la terrazza per non farci mandar via dalla portinaia. Costruivamo sui gradini delle scale, con i pochi giochi che ciascuno portava, dei meravigliosi appartamenti  o negozi con merci varie (scatole vuote recuperate in casa). E soprattutto portavamo alcune delle nostre bambole e si giocava a "mamma e papà", cioè nell'imitare tutto quello che fanno gli adulti. La nostra fantasia creava fatastiche case, plazzi, cucine, camere da letto, negozi. Non c'era limite alla fantasia. Ma questi sono giochi che anche voi avete fatto, ma a casa vostra, con le vostre amichette, nella vostra cameretta, con cucine in miniatura e tutte le stoviglie e le finte vettovaglie necessarie. Ricordo che una volta, alcuni anni fa, sono entrata in un negozio di giocattoli in centro a Milano e mi guardavo in giro incantata pensando a come sarebbe stata diversa la nostra infanzia se avessimo potuto avere tutti quei giochi! Ne sono uscita con quello che avrei desiderato di più nella mia infanzia: un sacchetto pieno di finti alimenti in miniatura, dalle scatolette del tonno, a quelle di pomodori, dal cartone del latte al pane finto e, persino la pizza. E' stato uno dei tanti regali che vi ho fatto. 

venerdì 28 ottobre 2011

La prima automobile della piazza


La "Giardinetta"
Riesci ad immaginarti un quartiere, con larghi marciapiedi asfaltati, larghe strade, una grande rotonda dove si affacciavano case – tra le quali la mia – tutte con le facciate curve che seguono l’andamento della piazza,  senza una macchina parcheggiata e con pochissime macchine circolanti? Era una meraviglia, il quartiere era nostro. Passavano dalla piazza solo la filovia e qualche macchina e, soprattutto, nel tardo pomeriggio, rientravano dal lavoro i carri della Ditta Gondrand che faceva traslochi e trasporti. Erano grandi carri di legno senza bordi, trainati da un solo cavallo, enorme, con possenti zampe con ciuffi di crine sugli zoccoli. Il cocchiere sedeva davanti, sul bordo del carro e noi, quando li vedevamo arrivare, vuoti, correvamo per salirci sopra – tanto andava così adagio il cavallo, stanco dopo una giornata di lavoro…  Tutti i cocchieri ci conoscevano e solo quando si arrivava vicino al deposito proprio dietro casa mia (dove c’erano anche le stalle per i cavalli) il cocchiere con voce burbera faceva finta di arrabbiarsi e ci faceva scendere prima di entrare nel deposito. Bene, davanti al marciapiede di casa mia, sulla grande rotonda, a un certo punto apparve la “giardinetta” del papà della mia amica. Che festa il primo giorno! Ha caricato tutte le sue figlie, forse mancava l’ultima troppo piccola, tutta la nostra banda e ci ha portati a fare un giro.
Eravamo stipati in quella macchinetta, che però allora ci pareva grandissima, ed eravamo molto felici: per molti di noi era la prima volta che salivamo su una macchina! Stretti stretti (eravamo almeno una decina) un po’ meravigliati e un po’ intimoriti dalla velocità, ci lasciavamo sfuggire delle risate liberatorie e, come era contento il papà della mia amica! Lungo un Viale Zara tutto vuoto ad una velocità che non poteva superare i 60 chilometri all’ora, ci ha portati fino al campo volo di Bresso e ritorno. Un vero viaggio! Era proprio un bravo papà. Per molto tempo la giardinetta è stata l’unica macchina parcheggiata su quella piazza.
Curiosamente, quando mio padre, anni dopo,  acquistò la nostra prima macchina, una “seicento”, il viaggio inaugurale fu lo stesso e anche quello suscitò in me la stessa emozione.

mercoledì 26 ottobre 2011

"Nata a Mombello"


Ti ho già raccontato che sono nata alla Mangiagalli (c’è ancora, ed è uno degli ospedali con il più rinomato reparto di maternità di Milano) sotto i bombardamenti americani e inglesi su Milano. Il giorno seguente alla mia nascita, mi raccontava mio padre, caricarono mamme e bimbi appena nati sui tram (tutti coricati per terra su materassi appoggiati al pavimento, e ci portarono a Mombello, in Brianza ad una quindicina di chilometri da Milano. Mombello è sempre stato un paese famoso per il suo grande manicomio, tanto che dire, sei nato a Mombello o vai a Mombello era come dire: sei matto! E mio padre a lungo giocava su questi detti per dirmi: tu sei andata a Mombello appena nata! Come dire: sei proprio matta!
Cancellata di ingresso del vecchio manicomio
Però, quando non scherzava e mi raccontava la vicenda, non nascondeva che aveva avuto un certo qual timore nel vedermi dietro un vetro, piccola piccola, con tutti i “matti” che giravano per il manicomio. Ma tu lo sai cosa è un manicomio? Dal 1978  una legge chiamata Legge Basaglia, dal promotore della legge stressa, i manicomi non ci sono più. Erano un misto tra ospedale e prigione, dove venivano rinchiusi, anche per tutta la vita, quelle persone che venivano ritenute “matte”. Ma matto in rapporto a cosa? Si poteva essere ritenuti matti solo per essere anticonformisti, originali, creativi, insofferenti alle norme sociali del tempo.  Quanti personaggi di oggi, solo un secolo fa sarebbero stati ritenuti matti! Erano dei veri ghetti dove i medici, in perfetta buona fede, sperimentavano sui “malati” cure tremende, non essendoci allora le  conoscenze che ci sono oggi su alcune malattie. E’ vero, anche oggi ci sono molte persone antisociali, che non sanno vivere in modo autonomo nella nostra società, che vivono in un mondo tutto loro, staccati da tutti, in un isolamento impenetrabile. Alcuni di loro possono essere anche violenti e pericolosi, ma ora vengono curati nei normali ospedali o in case di cura specializzate.
Ora quel grande manicomio non c'è più e i suoi edifici, in mezzo al verde, sono ora utilizzati per altri servizi. Ci passo spesso vicino e sorrido ricordando quello che diceva mio padre. Ma vedendo le tracce delle rotaie del tram che ancora oggi si intavvedono non posso fare a meno di pensare a mia madre e a tutte le sofferenza che lei e tutte le persone come lei hanno dovuto subire a causa di quella lunga guerra...

giovedì 20 ottobre 2011

Al Teatro alla Scala

Una volta, come saprai, non c'era la televisione e in casa per molto tempo non abbiamo avuto nemmeno la radio (poi vi racconterò anche la "storia" della nostra radio). C'era il cinema, e di cinematografi nel nostro quartiere ce n'erano ben 4! Ci andavamo spesso: con il papà e la mamma per vedere film impegnati o solo con la mamma per vedere film più leggeri o divertenti. Spesso ci andavamo solo io e mio fratello ed era una lotta tra i miei gusti i suoi: a lui piacevano solo film di guerra (allora ce n'erano tanti, tutti americani e quasi tutti erano film che raccontavano la guerra contro i giapponesi, brutti e cativi!), mentre a me piacevano film divertenti, e non volevo perdermi un solo film del "Picchiatello" che poi era Jerry Luis accompagnato da Dean Martin. In ogni film non mancava mai qualche meravigliosa canzone cantata da Dean Martin! Un giorno ve ne farò sentire qualcuna: che voce! Ma i miei genitori avevano anche l'abbonamento al Piccolo Teatro e, qualche volta, andavano alla Scala per assistere a qualche opera. Erano così entusiasmanti i racconti che ci facevano sugli spettacoli che vedevano alla Scala che io esprimevo tutto il mio desiderio di poterci andare almeno una volta. Ma c'era un problema: ci voleva il vestito elegante. A teatro si andava solo con il vestito "da  sera"! I vestiti allora costavano molto e figurarsi un vestito elegante. Ma mia mamma, pur lavorando fino alle 19,30 tutti i giorni della settimana e il sabato mattina, trovava anche il tempo di farci i vestiti. Quasi tutto quello che indossavamo ce lo faceva lei a macchina con l'aiuto di mia nonna che poi li rifiniva a mano. Mia mamma aveva imparato probabilmente da mia nonna che mi raccontava che già da piccola, emigrata in Brasile con la famiglia, lavorava con la macchina da cucire.

La macchina da cucire di mia mamma
Mia nonna aveva insegnato anche a me da piccola a fare i vestitini alle mie bambole con una bellissima macchina da cucire Necchi piccola, proprio da bambina, ma di legno e metallo, proprio come quelle vere. Uno dei bellissimi regali di Natale che ho ricevuto da piccola. Quanti bei vestitini ho fatto alle mie bambole. Alcuni con i ritagli di stoffa di quelli che mia mamma faceva a me e dei quali io ne copiavo la foggia. Così che vestivo le mie bambole con gli stessi vestitini che mettevo io, come fossimo sorelle gemelle.

E così avevo circa 10 anni quando, per andare alla Scala, mia mamma mi fece un bell'abito di pesante organza grigio perla con un bel fiocco sul fianco (tessuto riciclato da un suo vestito dismesso). Che meraviglia! Cambiava colore ad ogni passo e la stoffa "scrocchiava" un poco, sottolineando l'andatura. Certo la macchina da cucire di mia mamma era molto vecchia, da tavolo, a manovella, non andava a pedale (ancora non c'erano quelle con il motorino elettrico, erano riservate a quelle industriali). La macchina a pedale è rimasto uno dei suoi desideri insoddisfatti. Ma c'ero io. Io ero il suo motorino. Quando si metteva alla macchina chiamava: "Dov'è il mio motorino?" E io correvo felice di fare piacere alla mamma e di seguire affascinata il suo lavoro. Mi sedevo vicino a lei sul freddo marmo del tavolo della cucina con le gambe penzoloni e giravo la manovella all'incontrario seguendo i suoi comandi: adagio, vai, sì, così, più forte, fermati, ancora un po'... E intanto io guardavo e vedevo le sue esperte mani che si muovevano veloci sul tessuto che adagio adagio si trasformava e prendevano corpo gonne, vestiti, camicette, grembiulini e ne uscivano dei capolavori. E così il mio primo vestito fu fatto con il mio più grande entusiasmo, ma poi, non so come o perché, ma alla fine alla Scala non ci andai e il vestito elegante lo misi solo a Natale. Poi diventai un po' più grande e, allungato l'orlo, allargato il corpetto, il vestito non mi andava più. Occorreva fare un nuovo vestito per andare alla Scala. Guardavamo insieme le riviste di moda e, visto che allora andava lo stile impero, optammo per un corto corpetto con mezze maniche di velluto grigio e una gonna trapezio di una leggera lana pied-de-poule bianco e grigio. Il corpetto e la gonna erano uniti da un nastrino di velluto rosso con una gala al centro. Con quanto amore facemmo quel vestito e con quante aspettative! Ma anche quella volta il vestito non venne usato per andare alla Scala. Alla Scala ci andai molti anni dopo, da grande, già sposata, ma in compenso il "motorino" continuò a lavorare e così facendo, anche il "motorino" imparò a fare i vestiti per sé.


mercoledì 19 ottobre 2011

Quando l'acqua era l'Idrolitina




Mi ricordo che quando cercavo di spiegarti come era fatto il mondo senza plastica, mi hai chiesto: e l’acqua minerale dove la mettevano? Anche questa domanda mi ha sconcertato: ma chi la conosceva l’acqua minerale allora? Mi ricordo che era una cosa di lusso, ovviamente stava in bottiglie di vetro ed era una cosa che si portava agli ammalati all’ospedale, come una medicina. L’acqua minerale non era di uso comune, pochi la usavano, solo i ricchi o come cura gli ammalati e per le famiglie come la mia, veniva considerata come una medicina, da prendere solo in casi eccezionali. Erano poche le marche vendute, e tutte nelle bottiglie di vetro. L’acqua era quella del rubinetto, ma per renderla più gustosa e leggera si mettevano le bollicine. Come era possibile? Si aggiungevano delle polverine Idriz o Idorilitina, che ancora si vendono. Ora le polveri (bicarbonato di sodio e un acido – acido malico ed acido tartarico) sono in un’unica bustina e la scatola che li contiene è di cartone. Una volta, per preservare le polveri dall’umidità erano in bustine separate, di diverso colore, in una scatola di metallo. Credo di aver conservato alcune vecchie monete nelle scatole di metallo dell’Idriz che noi preferivamo all’Idrolitina. Era sempre una lotta tra me e mio fratello per preparare l’acqua da portare in tavola: la bottiglia di vetro doveva essere riempita, ma non fino in cima (occorreva lasciare spazio per la reazione delle polveri), poi la prima bustina, quella di bicarbonato e poi, attentamente per non disperdere polveri fuori, la seconda. Mi ricordo che per non disperdere le polveri nel versarle, si metteva intorno alcollo della bottiglia pollice ed indice ad anello, a mo’ di imbuto. E occorreva essere veloci nel chiudere la bottiglia con la sua chiusura ermetica - preparata attentamente prima nel verso giusto - altrimenti l’acqua, frizzando, se ne andava tutta a spasso! Guai ad invertire l’ordine delle bustine, l’acqua non sarebbe stata più così leggera e frizzante, sarebbe stata acida e poco gassata. Che bello vedere le bollicine di anidride carbonica che nascevano dal nulla, si ingrandivano e salivano in superficie! Ma il rito non era finito: occorreva rivoltare sottosopra la bottiglia due o tre volte per far sciogliere bene le polveri e poi attendere qualche minuto per aprire la bottiglia. Se si apriva troppo presto, l’acqua usciva con forza e addio bollicine e la doccia era assicurata!
Io ancora oggi sono contraria all’acqua minerale, la nostra è un’acqua buona, controllata e sicura. Pensa a quanta plastica si consuma, quanto petrolio, quanta energia inutilmente sprecata! Te l'ho già detto, e lo abbiamo visto al museo, ti ricordi? Una bottiglia di plastica lasciata nell'ambiente (e quante se ne trovano!) ci impiegherà dai 100 ai 1.000 anni a consumarsi. Pensa anche all’inquinamento di tutti quei Tir enormi che attraversano l’Italia, portando l’acqua minerale del nord al sud e quella del sud al nord! Ma a me piace l’acqua frizzante e allora ancora trovo nei supermercati le bustine dell’Idrolitina (ora le due polverine sono unite in una sola bustina). E così contribuisco un poco a non inquinare la Terra.

martedì 18 ottobre 2011

Il lavatoio

Vi ho già parlato in un altro post della mia passione per il bucato e  della mia gioia di quel natale in cui mi regalarono un piccolo mastello di legno per lavare la biancheria. Ora vi racconto come nacque questa mia passione. Da quando avevo 5 anni fino a 9, abbiamo passato le nostre vacanze a Carenno, un piccolo paesino situato a 600 metri sopra Calolzio Corte sul Lago di Lecco. Prendevamo in affitto una casa per tutti e 4 i mesi estivi - allora le vacanze scolastiche erano molto più lunghe - e ci trasferivamo tutti là: papà, mio fratello Giorgio, nonna Ebe, nonno Pietro (non per tutti e 4 i mesi) e la mamma che faceva il suo mese in agosto e il resto delle vacanze ci raggiungeva il sabato pomeriggio per poi tornare a Milano la domenica sera. La casa era grande e si ospitavano anche zii e amici. La casa era l'ultima del paese, abbarbicata sul pendio della montagna, tanto che non vi arrivava nemmeno la strada, ma solo la mulattiera che poi dalla nostra casa in poi si trasformava nel sentiero che saliva sul monte. Proprio dietro la casa c'era uno dei due lavatoi del paese, quello a monte. Un'altro era a valle del paese. Il lavatoio era bello, tutto in pietra, addossato al monte, con una bocca che buttava acqua gelida nella vasca sottostante. C'erano due vasche, la prima che doveva essere lasciata sempre pulita per gli animali o per chi prendeva acqua da bere, poi, dalla seconda vasca iniziavano i  piani inclinati per lavare i panni.
Un vecchio lavatoio simile a quello di Carenno
Durante le mattine sonnacchiose d'estate venivamo spesso risvegliati dal chiacchiericcio un po' aspro del dialetto bergamasco delle donne al fontanile, dalle loro risate e dal rumore delle lenzuola sbattute sulla pietra. Per me era un richiamo straordinario e, se non c'erano in programma gite in montagna, giochi particolari o compiti da fare, dopo colazione,  mi facevo dare dalla nonna i panni da lavare e, con la mia cesta e il mio sapone e la spazzola, me ne andavo al fontanile. Osservavo quelle donne e le imitavo: le vedevo arrivare, sinuose, ancheggianti sotto il peso delle ceste tenute sulla testa, appoggiarle a terra e, se non c'era posto al lavatoio, attendere, appoggiate al muro e chiacchierare a voce alta con la altre donne. A volte parlavano e non le capivo e ora mi rendo conto che usavano il dialetto per non far capire a me, bambina, alcuni loro discorsi.
Io lavavo e rilavavo sempre le stesse cose, copiavo i loro gesti, spazzolavo quei fazzoletti fino a renderli lisi. Passavo al lavatoio quasi tutta la mattina. Doveva venirmi a prendere mia nonna quando era pronto il pranzo. Passavo tutta la mattina a lavare e rilavare gli stessi fazzoletti, le stesse magliette, gli stessi canovacci. Spiavo sottecchi i gesti della vicina e li copiavo: lei sbatteva sulla grigia pietra il suo lenzuolo e io sbattevo il mio canovaccio, lei strofinava con le dita una macchia resistente e io facevo altrettanto, lei spazzolava con la "brusca" (la spazzola di saggina) i colletti delle camicie e io spazzolavo i fazzoletti, lei guardava contro il sole i canovacci per vedere se le macchie erano proprio andate via e io facevo altrettanto con le mie mutandine.
Quanto devono essersi divertite quelle donne nel vedermi imitarle così! Ma io adoravo sentirmi donna in mezzo alle altre donne, fare le loro stesse cose, usare gli stessi loro strumenti, la grande spazzola di saggina che a stento stava nelle mie piccole mani e il grosso pezzo di sapone di marsiglia che mi scivolava spesso in fondo alla torbida acqua del lavatoio e che ridendo le donne mi raccoglievano, stendere al sole sull'erba per sbiancarsi i miei fazzoletti e i miei strofinacci accanto alle loro grandi lenzuola, avere le mie mani rosse per l'acqua gelida come erano rosse le loro. Il duro lavoro mi nobilitava e quando rientravo a casa con il mio cesto di biancheria lavata non ero più "l'ultima ruota del carro" come solevano chiamarmi.
L'atteggiamento bonario e ironico di quelle donne nei miei confronti mi ha però creato anche alcuni turbamenti. Come probabilmente saprete (o forse no?) una volta non c'erano gli assorbenti usa e getta e si usavano dei pannicelli di spugna fatti in casa con vecchi asciugamani o, per chi poteva permetterselo, acquistati, che poi si lavavano e venivano riusati. Quindi al lavatoio quasi tutti i giorni c'era qualche donna che lavava questi pannicelli insanguinati. Ovviamente si mettevano nell'ultima posizione del corso dell'acqua, prima della fine del lavatoio, e si facevano obbligo di raccontare le cause di tutto quel sangue: una volta era il marito che era caduto dall'albero, una'altra volta era il figlio che si era tagliato con la sega mentre tagliava la legna, un'altra era il suocero che si era infortunato con la falce tagliando l'erba... Io rimanevo allibita e spaventata da tutti quegli incidenti e da tutto quel sangue e mi dicevo: per fortuna che noi abitiamo in città! 
Siamo tornati con mio fratello Giorgio una quindicina di anni fa a Carenno per passare un Week End con il camper. Siamo andati a vedere la casa ed il lavatoio. Tutto era uguale come nei miei ricordi, solo più piccolo. Il lavatoio era deserto: ora non risuoneranno più le chiacchiere e le risate delle donne di prima mattina, rimarrà un cimelio e tra qualche anno qualcuno si domanderà a cosa servissero quelle pietre inclinate... Incredibile comunque, la parte del paese verso il monte non è quasi cambiato da allora, e la mulattiera che conduce alla casa è rimasta uguale, con le stesse pietre che riconoscevo quasi ad una ad una, lucide dall'usura, la casa, intonacata di recente aveva la stessa struttura, lo stesso giardino e, ci giurerei, la stessa pianta di ribes che ci faceva fare ogni anno al nostro arrivo gli ultimi metri di mulattiera di corsa per giungere tra me e mio fratello per primi e aggiudicarci i migliori grappolini di frutti gustosi. Una volta i frutti dei ribes non erano venduti dai fruttivendoli come ora e il sapore del ribes rimarrà sempre per me il sapore delle vacanze. In ricordo di quel ribes la scorsa primavera  ne ho comperato una piantina che ho piantato nel giardino della nostra casetta in montagna e chissà se quei frutti, quando e se cresceranno, avranno lo stesso sapore...
Ho ritrovato ora su Google Maps l'immagine della casa di Carenno: è quella a destra in alto, a ridosso del monte, ma ora è stata ampliata verso la mulattiera. Prima era più piccola. Chissà se dietro la casa c'è ancora il lavatoio...