lunedì 7 novembre 2011

Anch'io ho avuto una nonna

Nonna Ebe con mio fratello e me
Si potrebbero scrivere fiumi di parole (e in tanti lo hanno già fatto) sulla meravigliosa esperienza di essere nonni.
Però c'è un ricordo che mi turba: la mia di nonna. La ricordo come l'ho sempre vista nella mia infanzia: magra, pallida, con lunghi capelli candidi che acconciava con una lunga treccia raccolta sulla nuca. I suoi vestiti erano tutti neri, ma con piccoli particolari che ingentilivano la sua struttura angolosa. il tessuto nero poteva avere dei piccolissimi fiorellini bianchi o grigi, oppure il colletto era di candido pizzo, o la foggia era ingentilita da pieghe o plissé. Non me la ricordo diversa, né più giovane, né più vecchia. Eppure ha vissuto in casa nostra praticamente dalla mia nascita fino alla sua morte, quando già avevo 13 anni. Solo due cose ricordo di lei, cose che mi ha raccontato: proveniva da una famiglia molto ricca, viveva in una grande villa e andava a scuola, lei e sua sorella, con il calesse e il cocchiere. L'altra cosa era che il suo futuro marito (mio nonno che non ho mai conosciuto) partì per fare il militare e lei era ancora così piccola che lui la prese in braccio e baciandola le disse sorridendo: "Quando torno ti sposo". E poi successe davvero!
Sorrideva di rado (forse anche perché aveva un sol dente!), non mi ricordo complicità o gesti affettuosi. D'altra parte non ero la sua nipote preferita: il preferito era mio fratello. Nel suo sguardo c'era sempre disapprovazione per me, mi considerava un maschiaccio, ben lontana dal suo modello di nipote. Modello che cercava di impormi quando mi portava a trovare la sua sorella minore, la zia Vittoria. E in quelle occasioni mi faceva indossare un abitino bianco ricamato, scarpe bianche di camoscio, e calzini corti bianchi che mi scivolavano sotto il piede ogni tre passi. Non dovevo correre, in filovia dovevo parlare piano e dovevo darle la mano. Fino a Viale Abruzzi ci andavamo con la filovia la 90 (credo che ci sia ancora) e, per arrivare alla fermata, io però mi prendevo una piccola rivincita. Dovevamo passare davanti al sagrato della chiesa di Santa Maria Alla Fontana, un grande piazzale di acciotolato, delimitato da paracarri di granito ogni due o tre metri. Allora mi rimboccavo la gonnellina dentro le mutandine e saltavo tutti i paracarri alla cavallina, sotto lo sguardo disapprovevole di mia nonna. Ero brava, facevamo sempre a gara con gli altri bambini a chi saltava più paracarri e in meno tempo. Io ero sempre tra i primi, ben avanti a tanti altri maschietti! Poi dovevo subirmi i rimbrotti della nonna, ma vuoi mettere la soddisfazione. Però devo ammettere che il vestitino che mi metteva era bellissimo, me lo aveva fatto la mia mamma e lo aveva ricamato proprio la zia Vittoria: di candida seta bianca (di un paracadute americano che mio padre aveva portato al ritorno dall'Oltrepò Pavese dove aveva fatto il partigiano) tutto ricamato con delicati fiorellini a punto ombra. Quel vestito l'ho portato per molti anni, perché, come si usava allora, c'era un buon margine di stoffa nel corpetto che di anno in anno veniva allungato e nella gonna venivano aggiunte balze ricamate. Ho un ricordo così bello di quel vestitino che è come se anche ora ne sentissi il profumo, la morbidezza, la scivolosità della seta e il ricamo a punt'ombra che formava, per ogni petalo di fiore, come delle bollicine di seta che ancora mi sembra di sentire sotto le dita, quando lo toccavo incuriosita da quello strano effetto di colore...
La nonna la ricordo sempre seduta sulla poltrona vicino alla finestra della sala da pranzo con a fianco il cesto da cucito e con vicino pile di calze da rammendare, orli da ricucire o da allungare, cerniere da cambiare, fodere dei pantaloni o delle giacche da cambiare. Allora si faceva tutto in casa e dalla sarta ci sono andava quando ero più grande per farmi fare dei cappotti con il cappellino uguale. Mia mamma ci teneva che fossi sempre elegante!
Mia nonna mi ha raccontato poco della sua infanzia. Ricordo solo che raccontava che abitava in una grande villa perchè i loro genitori erano molto ricchi e che andava a scuola con la sorella (la zia Vittoria appunto) con il calesse ed il cocchiere. Poi mi ha raccontato che da ragazza è emigrata in Brasile e che aveva come suo animale domestico una scimmietta (come la invidiavo!). La scimmietta, presumo una bertuccia, stava sempre con lei e si accoccolava sulla sua spalla e, quando cuciva con la macchina da cucire, cercava di prendere l'ago che andava su e giù, ed era per lei un gran da fare per evitare che un suo ditino si pungesse! Quando capitava che noi sbriciolassimo il pane sotto la tavola mentre si mangiava diceva: "Ci vorrebbero le mie galline che entravano in cucina a mangiarsi le briciole, così non sarebbe necesario scopare!"

Ma avevamo una complicità che ci univa: riguardava la suddivisione delle interiora del pollo. Vi dirò un'altra cosa che a voi parrà strana. Quando si comperava il pollo (solo in alcuni mesi all'anno - aveva la sua stagionalità anche lui) o te lo vendevano vestito, vale a dire con le penne e le piume o spennato, ma intero. E occorreva eviscerarlo, tagliargli le zampe, la punta delle ali, il collo e la testa. Ma non si buttava quasi nulla se non la testa, le budella e il contenuto dello stomaco. Ho inparato presto ad eviscerare il pollo, arte che ora quasi nessuno conosce. Il resto, compreso le zampe (che prima sfiammavi e spellavi) lo facevi bollire e si mangiava il fegato, lo stomaco, il cuore, il collo con il suo squisito midollo, e le dolcissime gelatinose zampette. La nonna divideva le prelibate interiora con me, ma so che lasciava quasi tutto a me, agli altri non piacevano, o forse lasciavano a noi quel piatto che alla fine ci univa in un complice evento culinario.

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